#22 | La Newsletter del Lunedì
Ode a un autunno arrivato in fretta, gioie nel missing out e una costante lotta contro l'ottimizzazione del tempo.
[First things first: grazie per volermi bene anche nei lunedì alle 10 in cui questa newsletter non arriva, per saperla aspettare e poi accoglierla con l’entusiasmo dei bambini che quando piove saltano nelle pozzanghere. Io ve lo dico, siamo 163 e ancora un po’ mi sento strana e arrossisco al pensiero che questi post arriveranno a qualcuno di nuovo, che ci si conosca o meno, che ci si conosca da tanto o meno, che non ci si sia scambiati più di un like su Substack o che ci si conosca da tutta la vita. Perché alla fine qui è un po’ come addentrarsi in una parte più intima, personale e “diversa” che non sempre mi rendo conto di mostrare “vivendo”. Quindi ecco: ognuno di voi conta e ognuno di voi conta tanto. Poi vi dico anche questo: mi stupisce sempre constatare come siamo così allineati tutti; io non sono riuscita a scrivere spesso in questi ultimi giorni, ma nel mentre non siete riusciti a leggere voi e me lo hanno testimoniato i vostri “sono indietrissimo con le newsletter” di risposta ai miei “Come stai?”. In quel momento io così: “ehm 🥹🥹”].
E grazie a te che oggi ti vuoi dedicare i prossimi 10:24 minuti, con queste 2601 parole.
Ciao Ottobre, sei il mio preferito
Non ho mai approfondito troppo bene il concetto di armocromia, ammetto, ma mi viene da pensare così su due piedi, di essere un po’ l’autunno.
🍁 Mi piace l’aria delle sue mattine gelide e pungenti, con il cielo turchese brillante.
🍁 Mi piace la luce calda e bassissima del sole che tramonta prima.
🍁 Mi piace vedere arrossire anche gli alberi (vorrei accogliere l’autunno in Canada un giorno, quei foliage hanno tutti i miei likes).
🍁 Mi piacciono anche le giornate in cui piove (anche se qui meglio se posso stare a casa a leggere un libro e fare tutte quelle “cose mie”, che altro non sono se non pagine che si scrivono e pensieri che un po’ si riordinano; e quando piove mi piace farlo un po’ di più).
🍁 Mi piacciono le luci delle case che si accendono e si intravedono dalle strade rientrando nel buio della sera.
🍁 Divani comodi con coperte morbide e calde.
🍁 La sua speranza: che ci sia ancora tempo perché cambi qualcosa, perché torni qualcuno, perché si realizzi un sogno, perché si modifichi una routine.
🍁 Le torte fatte in casa (pere e cioccolato, vince sempre).
🍁 I marron glacé e guardare i film di Natale (che poi si sa, il Natale arriva velocissimo, passa e va, mentre tu lo stai ancora aspettando).
Insomma, Ottobre me gustas tu (y mucho) però procedo prima che Manu Chao mi quereli perché gli ho copiato la canzone.
Ciao Ottobre, sei il mio preferito e ho trovato 6 cose da fare per renderti più speciale
Svegliarmi 30 minuti prima della sveglia per pensare solo a me
Stare 10 minuti al giorno in silenzio e ascoltarlo
Annotare tutti i glimmer della giornata prima di addormentarmi (se sei arrivato ora e non sei così sul pezzo sui glimmer, ti consiglio di leggere la NL #6)
Leggere un po’ ogni giorno, su carta stampata (una delle abitudini più belle del mondo, che faccio sempre più fatica a coltivare)
Bere più spremute (tutta la vitamina C del mio corpo mi ha abbandonata ultimamente)
Scrivere “ti voglio bene” quando lo penso, a chi voglio bene.
Ciao Ottobre, sei arrivato mentre ancora ti stavo aspettando. Ti accolgo con quattordici giorni di ritardo + un lunedì senza newsletter. Sono stati giorni veloci di spostamenti, viaggi e aeroporti [spoiler: quoto tutto quello che ho già scritto nella NL #7]. Fa un po’ strano e fa anche un po’ ridere, eppure sì: sono io la prima lettrice dei miei stessi post e ti assicuro che a volte rileggerli mi fa meglio di scriverli. Te l’ho già detto che è una terapia questa attività.
Torniamo a noi: che queste newsletter si intersecano con la mia vita privata, già lo sapevi. Che se non scrivo è perché probabilmente sto vivendo senza guardare telefoni, orologi e simili, anche. Che escono più o meno regolarmente, ogni lunedì alle 10 a seconda di quanto accelera la mia vita anche. Ma lo ribadisco per te che sei appena arrivato e che forse non sei ancora riuscito a recuperare i 21 post precedenti.
In breve:
💫 Impara a riconoscere i glimmer qui
🦁 Salta quando devi saltare qui
🍃 Prendi fiato qui
🧘🏻♀️ Prova a rispondere a qualche domanda scomoda qui, e vedi che effetto ti fa qui
A proposito di domande, più scomode o meno, ultimamente mi è capitato di scambiare qualche punto di vista sulla vita con un nuovo amico. Va bé, lui è un grande, vive sui palchi e dietro a un microfono, ha un podcast, intervista i big del mondo business, Fintech e StartUp, sorride sempre tantissimo e l’altra mattina riflettendo sulle sensazioni che proviamo quando ci sentiamo vivi, mi ha fatto questa domanda: “qual è la prima cosa che senti quando entri in un bosco?”.
Mi sono immaginata mentre mi addentravo in un bosco per davvero; era un bosco di alberi altissimi, da cui a fatica vedevo il cielo e in cui mi sentivo minuscola. Nel frattempo percepivo tutta la potenza e la protezione di quegli alberi che lasciavano filtrare la luce attraverso le fronde a intermittenza; camminavo su uno strato soffice di aghi di pino ormai secchi, sentivo un ruscello scorrere in lontananza, faceva fresco. Sentivo il silenzio e pian piano le mie orecchie si abituavano a quei non rumori lì. Non rumori di città, traffico e gente. Non rumori di velocità, caos e fretta. I non rumori della natura che ci sono, ma non sentiamo mai. Un grillo. Il vento. L’acqua. Il tuo respiro che rallenta. Per la risposta ho pensato al respiro, al fare uscire tossine dal mio corpo, al riconnettermi con me stessa (in quel mix di sensazioni belle come quelle provate questo sabato e domenica in mezzo alle coste remote, verdi e blu, e vista oceano della Galicia).
E invece era tutto più semplice.
In tutto questo mio pensare, non gli avevo ancora risposto niente e mi sono accorta che lui stava aspettando.
Credo di avergli parlato della sensazione di benessere generico, del sentire svanire i pensieri più pesanti e del mio accorgermi di restituire alla natura alcuni dei mostriciattoli invadenti che mi abitano. Un po’ una sorta di “Iceland calling” (che a proposito: quella serie di mostri che ho abbandonato lì, chissà come stanno).
Era tutto più semplice: mi ha risposto che si riattivano tutti i sensi, ma che quello che sentiamo di più di solito è l’olfatto.
Credo sia l’unico senso a cui non ho pensato e che forse non ho mai menzionato neanche parlando di fattore N (per chi arriva ora, si può approfondire qui - NL #8) e di quanto la natura ogni tanto ci richiami all’ordine, a dedicarle tempo e attenzione, a recuperare le nostre energie. È l’olfatto: il senso che sviluppano anche gli animali nel bosco già che rilasciano tutti quei feromoni per cercarsi e sentirsi.
Io ho shottato quel concentrato di spremuta multivitaminica che mi stava facendo bruciare gli occhi, lui il caffè, e mentre si aprivano le porte scorrevoli e rientravo in ufficio “pronta-ma-più-o-meno” a prendere in mano quella giornata lavorativa, ho desiderato tantissimo addentrarmi in quel bosco carico di silenzio e feromoni.
Scusami, mi sono persa.
No, non in quel bosco (che comunque, magari!).
Quante volte dici: “Scusami, mi sono perso” ultimamente?
A me è capitato di scriverlo spesso: stavo facendo una conversazione che ho abbandonato, stavo pensando a qualcosa che ho lasciato in stand-by, ho messo un po’ in pausa la vita e mi sono persa in quella pausa. Alcune volte quella mia stessa frase “Scusa, mi sono persa”, riletta, mi è sembrata una scusa: il non voler rispondere a qualcosa in quel determinato momento, il non avere effettivamente una risposta. Il non volerti fermare a scoprirti, a ritrovarti, per paura di quel che trovi.
Ultimamente mi sono persa.
Mi sono persa in un flusso di pensieri che non si districano (neanche con queste newsletter che dovrebbero servire anche un po’ a quello — sarà anche per il fatto che stanno scarseggiando).
Mi sono persa dentro me stessa e qualche incertezza.
Mi sono persa nella mia pausa di vita e in quelle domande che ancora non hanno risposta e forse non ce l’avranno mai. Tipo: “Cosa vuoi essere? Cosa vorresti diventare”. Ma anche quel: “Che cosa desideri veramente?”.
Io non lo so.
Se me lo chiedi tu, per te, se vuoi me lo invento e te lo racconto. Ti racconto una storia che molto probabilmente poi ti piace, in cui ti ci vedi e ti ritrovi. Però quando tocca a me per me, non so vedere oltre a quello che ho. Per paura di accontentarmi di una cosa basica e troppo poco stimolante, tengo tutte le porte aperte e tendo a crearmi condizioni di vita scomode, in modo che poi mi sia più facile scappare, migliorare e migliorarmi. Poi però ho talmente tanta capacità di adattamento e sopportazione che arrivo ad apprezzare anche quella vita, a trovarne i lati positivi, a starci bene, ad esserci comoda dentro, con tutto sotto controllo e la sicurezza di quel “non mi piace”; “non dura per sempre”, a farmi un po’ da piccola certezza.
Probabilmente stai pensando la stessa cosa che ha pensato Martin, una delle persone con cui mi capita di fare profonde riflessioni sulla vita e sulla salute mentale, anche a distanza di mesi (che a proposito: quanti post hai visto a riguardo il 10 ottobre? Io tanti, tantissimi, alcuni sapevano anche un po’ di “mental health washing”; i più belli sono stati quelli che hanno annunciato la newsletter “Chiaramente” e il podcast di “Troppo Poco” - a me sono bastati loro per festeggiarlo un po’ così).
Dicevo che probabilmente anche tu hai pensato a quanto contorto fosse il mio ragionamento di vivere scomoda, solo per avere tutte le porte aperte così. In effetti ora che lo scrivo, lo è anche per me. Probabilmente potrebbe diventare una curiosità simpatica se fossi meno boomer e avessi voglia di esplorare il mondo delle dating App descrivendomi con tre cose che mi caratterizzano. Potrebbero essere quella, unita a:
In volo spesso mi addormento durante l’atterraggio
Mentre mi lavo i denti vado in giro per la casa (FYI: un giorno mi è capitato anche in ufficio!)
E tutte quelle altre seimila cose che scrivo qui, perché non ho il dono della sintesi.
Mangia quella rana
Di recente mi è capitato di leggere l’espressione “Eat That Frog”, letteralmente “mangia quella rana”. Sto imparando a fare sempre più caso alle cose che “capitano”.
Contesto: siamo ossessionati dal fare, andare, produrre, se poi sei a Milano fa tutto rima con “fatturare”. Siamo ossessionati dal dover ottimizzare il tempo di una giornata, la settimana di un calendario, a individuare le priorità e riordinarle correttamente, darsi degli obiettivi (ma senza obiettivo dove si va), raggiungerli nel miglior e minor tempo possibile, in una costante corsa alla produttività, il che di default di porta probabilmente a essere frustrato e a rifiutare il concetto stesso di produttività.
Mentre sei in questo turbine di ansia e frustrazione da esasperante produttività (che non so a te, ma a me anche solo leggerlo, infastidisce), improvvisamente ti capita di fermarti (sei di fronte al mare, a un semaforo, mentre corri per le scale, quando vedi un cane che ti sorride, quando sei in volo — qui bello e un po’ dovuto perché in volo si ferma tutto, puoi pensare e non fare, puoi permetterti di rispondere in ritardo, sei giustificato a non chiamare e a essere davvero tu) e allora pensi a cosa vorresti essere, a come vorresti fosse la tua vita.
Inizi a fantasticare su cose strane e a chiederti che cosa desideri veramente.
Chieditelo anche tu adesso: che cosa desideri veramente?
E prova anche a rispondere con le parole giuste, senza usare risposte facili e già sentite da altri, senza perderti in troppa fantasia irrealizzabile. Pensa a qualcosa a cui dedicheresti la vita, una vita intera.
È difficile sapere cosa desiderare, o succede solo a me?
Qui è quando ti rendi conto che non sapendo quasi mai troppo bene cosa rispondere, scappi. Prima da te stesso, creando quella situazione ideale per far germogliare una cosa simile a un burnout e poi da tutto il resto. Lasci quell’ufficio e quel lavoro, per crearti un nuovo lavoro con un nuovo ufficio e senza accorgertene stai scappando dalla libertà che hai appena raggiunto. È un po’ come lasciare una gabbia, per entrare in un’altra gabbia all’apparenza più grande, accogliente e confortevole, ma sempre una gabbia che semplicemente non hai riconosciuto subito per quello che era. Ed eccoti di nuovo lì: per cercare la perfezione dell’ottimizzazione del tempo, la libertà ti è impossibile. “Apri un blog, il tuo canale YouTube, un podcast, così potrai essere libero di fare quello che vuoi fare”, ti dicono (e ti dici).
Una promessa esaltante, che fai tu per primo a te stesso, ma prima di rendertene conto sei preso da quel vortice di iper-produttività che ti porta a scrivere sempre più post per il tuo blog, creare sempre più contenuti per i tuoi social, registrare un nuovo video più bello e performante per il tuo canale YouTube, pubblicare con più frequenza puntate sul tuo podcast, impostare strategie più strutturate per ottenere più traffico al tuo blog, migliori performance e di conseguenza a confrontarti sempre di più con gli altri, quelli che il blog ce l’hanno da anni e ha già tutte le views che vorresti avere tu. Qui è quando non c’è più spazio per la novità, l’imprevisto, l’inaspettato. Qui è quando si riducono infinitamente anche le possibilità di cercare chi vorremmo davvero essere.
E allora come si fa?
Si fatica un po’, ed è difficile. Però è qui che dobbiamo sforzarci di più per imparare a riconoscere mini momenti che arrivano proprio per forzarci a riconoscere i nostri desideri più profondi. Qui è quando ti si propone l’opportunità di “prendere il toro per le corna” — wise cit. dalla mia amica Flavia 🦭.
Esiste un potere enorme nell’imprevisto: il potere di farti capire che ci sono strade e versioni di te che non avresti mai considerato e che invece vale la pena di riconoscere e conoscere. Sono arrivate per questo. Tocca a te restare aperto e cercare di scorgere nuove possibilità in ciò che non accade come avevi previsto.
Sperimentare un breve momento di libertà, sforzandoci di ritagliarcelo nella vita di tutti i giorni, abbracciare questa quiete, anche brevemente, può aiutarci a far nascere l’occasione per chiederci: che cosa desideriamo veramente?
E chiudiamo questo secondo lunedì di autunno, così: pensando che hai ancora tre mesi di 2024 per raggiungere un po’ di quelle cose che avevi segnato sulla tua vision board a inizio anno (o a marzo quando te lo raccontavo qui). E pensando che se non le raggiungi possono slittare al prossimo anno, perché non era ancora il momento di incontrarle.
Sì esatto, perché possiamo anche aspettare. Noi che non sappiamo più aspettare, possiamo aspettare. Noi che quell’obiettivo lo dobbiamo raggiungere subito, la persona che stiamo conoscendo la dobbiamo vedere subito, il caffè ce lo shottiamo da in piedi subito e ancora bollente, la consegna di Amazon deve arrivare subito,..
E invece ti assicuro che possiamo aspettare, rallentare e respirare, lasciando che quel momento di improvvisa libertà e di imprevisto, ci mostri un po’ di più di chi siamo e di chi vogliamo essere.
In breve, possiamo sostituire la FOMO con la JOMO e questo te lo racconto il prossimo lunedì insieme a un’altra cosa ➡️
Di base io mi sono resa conto relativamente da poco che una delle mie principali disfunzioni di questa vita è che sono fatta per aspettare, anche in una vita che non ci lascia il tempo per farlo: sono fatta per prendere la metro che arriva dopo, fare prima una cosa e poi l’altra, prendere il caffè da seduta, rallentare quando il semaforo diventa arancione, rispettare il mio turno e le file, accompagnare il sole che tramonta, attraversare Milano in bici guardandola cambiare colore, arrivare quando devo arrivare.
Mentre sto scrivendo questo “pamplhet” contro i calendari pieni e super ottimizzati, ricevo la notifica di Vueling che mi chiede se voglio procedere con il “fast track” del mio prossimo volo. Scelgo il no, oggi non voglio essere veloce.
Quindi ecco: io un po’ con i calendari troppo pieni e con la massima ottimizzazione performante del tempo non sono proprio allineata (questo da riaggiungere alla mia breve descrizione).
Poi ti dico anche questo:
Ah, il caffè come l’hai preso oggi? Per te che non l’hai preso, prendiamolo assieme qui 👇🏻
📌 Post Scriptum
Io sono al Satan’s, anzi ex Satan’s, ora credo si chiami Tostao.
Sono a Barcellona, ottobre qui è ancora caldo e il sole fortissimo ti fa strizzare gli occhi, esci senza giacca (al massimo con un gilet), ma resti in mezza manica.
Il caffè è torrefatto forte, intenso, tipico di quelle case di torrefazioni con brand nuovi e moderni, dove lo studio di grafica è più importante della raccolta del caffè, che ci piace. Tempo fa, quando ancora si chiamava Satan’s non permetteva che si utilizzasse il wifi, e una scritta esortava a parlare con il tuo vicino di tavolo (i tavoli sono condivisi). Ora si lavora, mentre si bevono flat white ☕️ con cuori di latte in centro e il pain au chocolat 🥐 si sfoglia croccante.
Appena arrivata qui, qualche giorno fa, ho fatto una corsa fino al mare a fine giornata: sapeva tutto tantissimo di salsedine, ti entrava nella pelle, nel naso, nei polmoni. Devo ricordarmi di chiedere a Filippo se il contatto con il mare ha lo stesso effetto del bosco. Io in fondo credo un po’ di sì.
✨ Ciao tu, buon lunedì!
Vivitelo e poi raccontami com’è andata.
xx, Marta