#15 | La Newsletter del Lunedì
Di freni da lasciare andare, più voglia di arcobaleni e posti-vitamina.
[First things first: “Arriva o non arriva la newsletter del Lunedì?” Arriva oggi dopo due settimane di pausa in cui ammetto mi sia ritrovata a rileggere post vecchi perché alle prese con strani loop mentali anche io; mi è mancato trovare questo momento con me, per me e per te, perché è un piacere scriverla, sempre; è uno dei miei piaceri più grandi, una cosa che quando mi si accorcia un po’ il respiro me lo fa tornare, una specie di cura per calmare la mente; però sai quando hai bisogno di qualche coincidenza astrale per farla e per farla bene? Arriva oggi dopo due settimane di pausa perché intense di tutto quell’ “any other business” alternativo alla serenità di questa scrittura. O meglio, non solo: ci sono state giornate di infinite tab aperte sul PC, e giornate di infinite distese naturali da osservare dal finestrino di una macchina in corsa, complici rispettivamente tantissimo lavoro e una toccata e fuga nella mia terra preferita. Però è arrivata, e anche in questo lunedì parte da un solito e ripetitivo GRAZIE, dove solito e ripetitivo si trasformano in aggettivi dall’accezione positiva a testimonianza di una routine fatta di serenità 🙏🏻💫].
🌈 3,2,1 go!*
[*hai pensato anche tu a Shooting Star in super trend su TikTok? Daiii]
Oggi inizio con una canzone bella e un aneddoto di qualche settimana fa, che è tornato a trovarmi. Ti anticipo che le riflessioni di questo post non saranno troppo lineari e ti chiederò io il tuo punto di vista di tanto in tanto. Enjoy queste 3603 parole da leggere in 14:24 minuti e poi scrivimi cosa ne pensi tu.
Milano, venerdì 31 maggio 2024
Sono le 8:20 e uscendo di casa una ventata di profumo di fiori di gelsomino mi avvolge e mi entra nel naso. Con il sole, attraversare la città in bici per andare in ufficio è molto piacevole. Su due ruote scorre tutto velocemente. L’asfalto liscio tra i pedali corre. La vita corre. O almeno, è una sensazione. Il semaforo diventa rosso e non riesco ad attraversare l’incrocio in tempo. Si ferma tutto. L’asfalto liscio tra i pedali, la vita. O almeno, è una sensazione. In bilico su quella bici, osservo una ragazza super agghindata che cammina svelta sul marciapiede su tacchi a spillo di vernice nera. La immagino raggiungere un ufficio con i soffitti altissimi e le scrivanie in vetro, dove l’ultimo modello Nespresso, comprensiva di cialde tutti i gusti+1, si nasconde in un armadio a scomparsa in legno chiaro, intonsa e inutilizzata perché la pausa caffè alla fine la si fa tra un’ora al bar sotto l’ufficio. Guardo la mia ombra riflessa sull’asfalto e il mio caschetto più corto di quello che mi sarei mai immaginata. Noto le mie comodissime scarpe da ginnastica, i jeans da cui fuoriesce la caviglia e la mia mente si affretta a fare il paragone con quella ragazza che forse è più giovane di me, per poi lasciare il posto alle parole di Carrie Bradshaw in Sex & The City, quando ricorda quanto le scarpe di una donna non debbano mai essere comode. Noto come io ultimamente stia optando per la comodità. Dal portone di fronte esce il portinaio che sta pulendo l’ingresso del suo civico, già splendido splendente se non fosse per qualche rigagnolo lasciato da cani infiocchettati, abituati ai pavimenti in micro-ceramiche chiare. Quel portinaio è piccoletto e ha un cappellino per il sole blu in testa: chissà che ore sono adesso dai suoi figli nell’emisfero australe. Il semaforo si fa verde, riprendo a pedalare in scia a un signore in impermeabile, che si muove su una bici troppo vecchia, trascinando al guinzaglio un simpatico fox terrier saltellante: il mio glimmer della giornata e di un maggio che tra un acquazzone e l’altro è volato, è andato ai 100km/h e mi ha restituita a Milano con mille dubbi. Milano è bella, il profumo dei fiori di gelsomino dei suoi cortili si alterna al profumo di dopobarba di chi sfreccia in motorino in giacca e cravatta per le sue strade affollate, o a quel che resta dell’ultima versione di Diptyque dietro alla ragazza che raggiunge l’ufficio in tacchi a spillo sul suo marciapiede. Milano è anche tante macchine e caos, soprattutto al mattino, ma oggi un po’ meno del solito. Pedalando per Milano penso a quanto siano andati veloci questi ultimi 6 mesi e a come la vita stia correndo. Corre come le ruote sull’asfalto. Mi osservo da distante, come se io fossi il narratore esterno della mia vita, osservatore onniscente e indiscreto. E mentre mi osservo da lontano, in equilibrio tra quelle macchine, il pavé, qualche pozzanghera che segna quel che resta dell’acquazzone, a tratti la sabbia dei lavori in corso, le rotaie del tram e quell’autista che si ferma di botto e mette le quattro frecce per aspettare il suo passeggero (sì, Milano è un salto a ostacoli) vedo le mie mani sui freni: sono lì, pronte a stringersi in pugno per evitare la caduta, lo scontro, l’urto, l’imprevisto.
Quegli imprevisti che a volte ti cambiano un po’ la vita? Sì, quelli. Quelli di cui non senti la necessità nella tua vita di adesso, che pian piano sta ritornando comoda, quelli che non vorresti affrontare, ma che a distanza di tempo ti regalano sorrisi grandi? Sì, quelli.
Tengo i freni sotto controllo, lì, pronti all’uso e leggermente premuti costantemente, per non andare troppo veloce, per riuscire a rallentare senza fermarmi al semaforo così da non mettere giù il piede, per rimanere in equilibrio fino alla prossima luce verde, viaggiando alla stessa costante velocità.
Senza sbalzi di umore e colpi di scena? Senza.
Perché vogliamo controllare tutto? Perché non lasciamo che siano le folate di vento a farci andare più veloce e non molliamo un po’ quei freni.
Una volta distrattamente l’ho fatto — distrattamente al punto da urtare sul serio una macchina parcheggiata in strada (il che mi ha regalato un unghia nera, un graffio sulla coscia e un aneddoto un po’ weird, ma nello stesso tempo simpatico e bellissimo da condividere con Ari che mi stava aspettando per una colazione delle nostre, da Serra di Quartiere — posto super bello, che trovi nel PS* della Newsletter #9 📌). Anche Ari il giorno dopo è volata altrettanto bene. Ops! Eh be, abbiamo ancora riso raccontandoci quel mini brivido che un po’ ci ha portato fortuna. 🚲🍀✨
Ma sapendo che non sarà mai possibile, perché cerchiamo comunque di controllare tutto?
So bene che le cose più belle ci accadono quando smettiamo di controllarle, alla fine mi è successo (e non parlo dell’urto della macchina in bici). Sai quando lasci un po’ che la vita faccia il suo corso, senza darle più ordini o volerla tenere sotto controllo? Ecco! Solo che ho la tendenza a tenere quei freni sotto controllo. Le cose più belle ci accadono in quel momento lì, quando mettiamo il piede fuori da quella linea immaginaria di comodità, quella che tratteggia la nostra zona di comfort in cui sappiamo già come comportarci, anticipiamo le nostre reazioni, i nostri prossimi passi e le nostre parole. Quando coloriamo oltre le righe di contorno.
In effetti lì non sappiamo bene cosa ci succede, ma potrebbe succederci una cosa bella.
Quelle cose belle lì accadono quando invece di pensare un minuto in più, pensi un minuto in meno, segui la pancia e ti lanci in avanti — come le pecore in Islanda quando ti vedono arrivare in macchina e temerarie attraversano lo stesso (forse apposta?) in fila per tre (loro viaggiano sempre in tre). Accadono quando insegui quella sensazione lì che hai dentro, quel pensiero martellante che nel frattempo si è trasformato in solletico sotto i piedi e magari ti ritrovi a scalare la collina verde davanti a te curioso di scoprire cosa c’è dietro, come è successo a me (forse in un altra vita ero un esploratore?) e a scendere di corsa così:
Poi a saltare su un tappeto gonfiabile nel bel mezzo del nulla islandese — anche se sei palesemente troppo grande per farlo, anche se c’era un bambino più piccolo di te sopra prima, anche se probabilmente quel narratore esterno e onniscente che ti osserva da fuori sta ridendo. [Plot twist: tutta la tua famiglia ti ha seguita e state ridendo a crepapelle (causa adrenalina e salti alti) e ti accorgi di aver appena regalato a tutti un glimmer. Hai mai provato? Ha l’effetto del fare la lotta con i cuscini].
Pedalando su quelle due ruote, guardando le strisce bianche sull’asfalto scorrere sotto di me, sorridendo a un altro cagnolino (glimmer #2), ho rivisto le mie mani sui freni, pronte a rallentare, a scartare ogni imprevisto, urto, caduta. E mi sono resa conto di vivere una vita con i freni tirati.
🌈 Tu cosa mangi a colazione?
Il 99% delle volte la mia colazione è a base di pane e marmellata + caffè latte (alternati a brioche all’albicocca/ cinnamon roll + flat white, se la faccio fuori casa, in uno di questi posticini dei PS che ti lascio qui).
Percorro sempre la stessa strada per andare in ufficio (e ti assicuro che ci sono una decina di scorciatoie), poi percorro sempre la stessa per tornare (diversa dall’andata) - don’t ask me why.
Riconosco di accomodarmi spesso in qualche certezza, in qualche punto fisso, che fa rima con un comodo look in jeans e scarpe da ginnastica. In questo periodo un po’ di più.
Ultimamente però mi succede spesso di guardare le mie mani sui freni e di lasciarmi sorprendere poco dopo da uno strano nodo allo stomaco, una cosa sopportabile, certo, ma che intanto c’è e ogni tanto torna a farmi visita, in questo periodo un po’ di più. In parte segue un po’ di quelle domande che mi sono portata dietro dall’Islanda la prima volta (tu: “Me lo racconti?” - io: “La trovi tutta nella Newsletter del lunedì #4”), quando poi mi sono effettivamente decisa a fare la mia brusca inversione di vita a U. In parte sento che è passato un po’ da quell’ultima volta in cui ho fatto qualcosa per la prima volta. In parte è un mix di consapevolezza tra il sognare la comodità di una routine sana e prevedibile, ma di averne paura allo stesso tempo, fino a sognare un plot twist mozzafiato.
Non ti succede mai?
Più che altro questi plot twist qui quando sono arrivati in passato (perché in effetti ci sono stati) mi hanno colta alla sprovvista, non me li aspettavo perché non erano infatti previsti nella mia vita sotto controllo e ciao, alla fine sono scappati. Non ho fatto in tempo a prenderli. O forse ho fatto in tempo a non prenderli perché doveva andare tutto così?
Credo di sì in parte, se avessi dovuto seguirli, li avrei seguiti. Però ecco, a tratti, in alcune giornate più che altre, e ultimamente un po’ di più, mi torna a visitare un po’ sempre quella sensazione di “E se invece l’avessi fatto?”. Che adesso si è trasformata in un “E se lo facessi adesso?”.
Non ti succede mai?
E non credo che questa voglia matta di avere una vita comoda opposta alla voglia matta di averne una in cui inseguire un plot twist al mese abbia a che fare con l’innata indecisione insita nel mio segno zodiacale fatto da due persone in una e sempre indeciso. Però effettivamente mi chiedo se Katy Perry ce l’avesse con me quando ha scritto “Hot ‘n Cold”.
Praticamente il mio andare in bici e con le mani sui freni si è trasformato in una metafora di vita e me ne ricordo ogni volta che ci salgo.
Sai quando senti che ti arriva un’idea e vuoi cambiare un po’ tutto di te? La senti arrivare. Ti accorgi che in realtà è già proprio arrivata. Ma te la tieni lì e lasci che si insidi nelle tue viscere, nei tuoi pensieri, negli angolini del tuo cervello. Tu ponderi, e metabolizzi. Resti. Parli con te stesso, te la tieni, la fai tua e man mano ti convinci sempre di più che sia la cosa giusta per te.
Mi è successo un po’ così lo scorso anno, prima di quell’inaspettata inversione di vita a U, quando tutti quei pensieri, seppur ingarbugliati, fluttuavano dentro di me da qualche mese ormai.
Ultimamente mi arrivano un po’ di pensieri che hanno in me lo stesso strano effetto: mi svegliano nel cuore della notte e mi accorgo di non voler ascoltare ulteriormente quella voce, perché “sarebbe bello, sì, ma ci hai già provato una volta e poi la tua comfort zone è più bella”. Al mattino, ignara di quel ricordo, rivedo le mie mani sui freni e ripenso a quanto sia tutto più sensato: e allora mi rimetti in ascolto di quella voce.
Cosa mi dice?
In realtà mi chiede, non mi dice. Mi chiede di guardarmi dentro, a distanza di un anno da quel momento un po’ di crisi, mi chiede di riconoscere i passi avanti, gli insuccessi per condividerli, i successi per trarne insegnamenti. Mi invita a volermi più bene, ad abbracciarmi, a stringermi forte perché sì, pian piano le notti sono diventate più calme e mi riposo, perché all’improvviso non piango più out-of-the blue e senza saperne il motivo, perché sì l’Islanda e Bali mi hanno aiutata, ma di base ho fatto un po’ tutto da sola e sì, sono molto più coraggiosa, intraprendente e forte di quello che pensavo. Mi voglio molto più bene di quello che pensavo di essere capace di volermi. Mi invita a non smettere di ascoltarmi mai e a tenere dentro di me anche questi nuovi solletichii, per seguirli non appena ne avrò voglia.
Solletichi? Sì quelli che arrivano a darti un po’ fastidio e intavolano mille conversazioni con te stesso. Come quell’ultimo weekend trascorso a Barcellona, quando qualcosa di strano mi è rimasto dentro e per la prima volta ho percepito un desiderio nuovo di trasferirmi lì per impostare una vita sana, serena, vista mare e abbracci coccolosi. O come quell’altra volta lì, quando la destinazione era a qualche centinaia di migliaia di chilometri in più, ma mi attirava come a Nick Carraway attiravano le feste da Jay Gatsby osservate da dietro la sua finestra. Ci ripenso spesso e mi sono resa conto che in quell’occasione non mi sono mossa perché non avevo ancora quel coraggio, quell’intraprendenza e quella forza che ho imparato a conoscere adesso.
Eppure poi però non mi muovo neanche questa volta. Non subito almeno. Rifletto, parlo con me stessa. Tengo quei freni tesi. Di base capisco che forse Milano non è la mia città, o non più, o non ancora? Mi ha protetta, mi ha tenuto compagnia, accolta e lo riconosco, le sono grata, ma forse ora mi rendo conto che aveva ragione chi mi diceva di scappare tempo fa per cambiare aria. Avevo fatto un post a novembre, dedicato a chi che con facilità mi diceva cosa fare. E l’ho fatto anche un po’ arrabbiata perché la sapevate più lunga di me, mentre io a Milano volevo dare una possibilità. Era questo:
E infatti mi piace. In questi giorni profuma di gelsomino. Ma?
Mi piace, ma questa cosa di Barcellona questa volta mi è rimasta dentro e quando guardo le mie mani su quei freni mi viene in mente. Mi chiedo perché non riesco a salire sui treni in corsa e a cogliere le opportunità al volo. Mi chiedo perché devo sempre riflettere così tanto prima di fare un passo, passando in rassegna tutti i pro e tutti i contro di tutte le possibilità. Me lo chiedo fino ad arrivare a pensare che alla fine, forse mi serve per avere tutta la certezza, il coraggio e la convinzione da guidarlo io quel treno, e farle cambiare io quelle cose come è successo l’ultima volta che ho fatto qualcosa per la prima volta — e che poi se devono arrivare, arrivano. Mi calma solo il pensare che mi trasferirò dove dovrò, quando lo vorrò io. Intanto mi serve ascoltare questa sensazione senza giudicarmi.
Il “senza giudicarmi” è una delle cose che trovo più difficili al mondo, che appena sono stanca non so gestire, che mi insegna a fare Marta in tutte le sue pratiche di yoga assieme, ma che non sempre mi riesce bene.
Riconosco di faticare un po’ ad accettare questa mia parte che mi giudica, come anche quella così controllata, e riconosco di di aver bisogno di mollare un po’ quei freni, di fare e non pensare, di correre e non camminare, di sbagliare, di andare, di vivere senza quel freno inibitore, di uscire di casa, come quella cosa da bambino che ci dicono qui:
Comunque insomma, ultimamente sono un po’ scombussolata: sto bene e sono serena, ma sono un po’ scombussolata. È come se fossi un po’ in bilico, in equilibrio sopra la follia? e non capisco quale sia il mio posto. Allora scappo e vado in Islanda, osservo quelle distese di ghiaccio, neve, pendii che si fanno verdi per poi abbracciare il mare e diventare un scintillio di luci blu e lascio che la mia mente si liberi ancora, si plachi, lascio che siano quelle terre lì a consigliarmi, a suggerirmi cosa fare, a tranquillizzarmi. A farmi sentire a casa.
Sì, questo secondo viaggio in Islanda è stato molto diverso dal primo: una toccata e fuga che si è inserita alla perfezione in un’agenda di vita carica di cose da fare, senza lasciare traccia, o strascichi vari (almeno in apparenza). Immagina una linea del tempo che scorre dritta davanti a se e poi immagina di interromperla, fare un salto fuori da quel succedersi di eventi, vivere forte, e poi ritornare con uno stesso balzo al punto in cui la linea si era interrotta per farle riprendere il suo corso. In realtà poi senza accorgermene quella toccata e fuga mi ha caricata di cose belle ed energia pura. Mi ha consigliato e raddrizzato i pensieri storti, mi ha illuminato la via giusta. Ancora una volta mi ha fatto da guida sincera, sicura e poco invadente.
È incredibile, è proprio così: funziona meglio di uno psicologo e sa di migliore amica. Sarà la mia cura per la vita.
Però ecco: questo per dire che per quando stia andando tutto veloce e meglio dello scorso anno, io e la mia crisi esistenziale non ci lasceremo mai forse. [Chi altri come me? 🙋🏻♀️]
Del tipo che sto bene dove sono: mi piace Milano e la mia routine di cose semplici e un po’ sempre uguali, quelle di cui avevo bisogno per rimettere ordine nella mia vita; ma sto bene anche a Barcellona e mi piace quella mia semi routine di casa lontano da casa; ma mi piace anche tornare a Biella e rivedere le mie persone di sempre per una semplicissima cena in giardino che si trasforma nel glimmer della settimana e mi fa pensare che forse vorrei trasferirmi in quel giardino, prendermi cura io di quella casa fatta di poche stanze, essenziali e immerse nel verde, e nel mentre scrivere la storia di quell’amicizia (parte 1 + parte 2, dieci anni dopo) guardando fuori dalla finestra della cucina (D questo poi te lo racconto meglio appena ci rivediamo 😉); mi piace anche la mia casa, che nei vecchi diari di infanzia descrivevo come “Il posto più bello del mondo” e il trovare sempre tutto allo stesso posto, sempre con lo stesso profumo; mi piace quella camera che è un po’ cresciuta con me e adesso è un mix di ricordi di tante vite; ma sto bene anche (e soprattutto) in Islanda perché è qui che mi sento al cento per cento me stessa.
E allora forse il mio (come il tuo) ”posto nel mondo” sono tutti questi posti, insieme a tutte le mie (come le tue) persone.
Il tuo posto nel mondo è il tuo stare bene in tutti questi posti, piuttosto che non saper stare in nessuno di essi. Il tuo “posto nel mondo” sono tutti i tuoi Posti-Vitamina, quelli che hanno lo stesso effetto delle persone vitamina che ti ho presentato nella Newsletter #5. Sono posti che ti caricano, in cui stai bene anche da solo, in cui ti rifugi quando ne hai bisogno, in cui senti che devi andare per riprenderti e stare meglio, che vuoi far conoscere a chi vuoi bene per vedere l’effetto che hanno anche su di loro. Magari cambiano nel tempo, a seconda delle tue esigenze e fasi di vita, ma sono i posti ai quali vuoi bene e che ti ricaricano.
Pensare a questo, mi aiuta a calmare anche quel pensiero che nasce guardando le mani sui freni e lentamente allentare quel nodo allo stomaco.
Lo dico anche a te che non sai dove andare, dove stare, cosa fare, forse non sai più tanto bene chi sei: tu sei tutti quei posti lì, tutte le persone che hai incontrato, tutti gli sbalzi di umore e le emozioni che hai vissuto. Sei tutte le cose belle e anche tutte quelle meno belle. Sei tutti gli abbracci che hai dato, e quelli che non hai saputo dare. Sei il risultato di tutti quei mix di sguardi, parole, sogni, vite che hai incrociato. Sei tutti i tramonti e le albe che hai visto. Sei un bel mix. Unico.
E in qualche modo forse il tuo posto nel mondo sei tu, la tua persona sei tu.
Ecco che ritorna quel consiglio da bambino:
Io ci ho messo tempo a imparare ad ascoltarmi e a tratti fatico ancora un po’.
Quelle due ultime volte in cui ho deciso di fare qualcosa per la prima volta, mi sono lanciata, sì, e ogni tanto mi rileggo ancora i post #2 e #3 per rendermene davvero conto. Ma forse perché ero arrivata alla fine di tutte le possibili riflessioni che potevo fare?
Oggi è tutto un po’ arruffato, te lo avevo anticipato. Sono in una costante fase di “si-ma-no” e pensieri contorti anche io — poco utili a chi si trova nelle mie stesse condizioni, capisco. Però mi sento di dire che finché agiamo in coerenza con i nostri valori, ascoltandoci fino in fondo e seguendo il nostro istinto, siamo sulla strada giusta. Poi quello che deve arrivare, arriverà.
In quelle due ultime volte in cui ho deciso di fare qualcosa per la prima volta volevo guidarlo io quel treno ed ero pronta per farlo, ne avevo voglia e succederà ancora non appena dovrà accadere. Se non altro ho la consapevolezza di saper fare una cosa per la prima volta e lanciarmi ancora, se ne avrò voglia.
📌 Post Scriptum
Oggi ti porto da June Collective, un altro di quei locali belli che ho qui da consigliarti da mesi e per il quale non avevo ancora trovato il post giusto per raccontartelo.
June Collective è il primo posto che ho raggiunto in bici, pedalando per circa 40 minuti e ci voleva questa Newsletter che parla di lunghe pedalate per la città per raccontartelo. (Che poi, tu ti faresti 40 minuti per raggiungere un nuovo locale? Giusto per capire se sono un po’ strana io).
Si trova nel Certosa District, quindi non troppo a portata di mano, ma merita. Merita per gli ingredienti alla base dei suoi piatti, per la “Colazione Lenta” sul menù, per la cortesia di Mythila, di Ilze e delle sue persone. Merita per la loro storie.
Inutile dirti cosa ho preso io per colazione, pian piano stai imparando a conoscermi. Però in effetti la scelta è stata ardua perché meritava anche spingersi oltre quel solito cinnamon roll + flat white. ☕️
E infatti mi sono fermata per ore, bevendo caffè, lavorando, scrivendo e poi a pranzo con la mia compagna di scoperte milanesi Anna (e qui ti regalo un extra selezione di scatti anche sul pranzo perché era tutto molto fotogenico).
Ne ne sono valsi tutti quei chilometri in bici.
Ciao tu! Buon primo lunedì di estate: che sia sereno, un po’ fuori dalla tua comfort zone e senza freni 🌬️
Con affetto, Marta